ORIZZONTI
Da bambino viaggiavo molto con la mia famiglia. In estate prendevamo il camper e da Riccione salivamo su, fino al Nord Europa. Le terre ed i cieli stranieri innanzitutto li incontravo così: osservandoli e scoprendone gli orizzonti dal finestrino, da dietro un vetro, accompagnato dal suono degli pneumatici sull’asfalto e dall’incessante cigolio della porta del piccolo bagno nell’abitacolo del camper. Se penso al mio senso di casa, alla mia famiglia, penso a un costante movimento, a uno scorrere del mondo; e vedo un gruppo di persone arrangiate in un piccolo spazio che parlano, discutono, mangiano e dormono abbracciate da linee d’orizzonte sempre diverse, che danno mostra di sé al di là dei vetri, plasmate dalle impurità di quest’ultimi. Tali orizzonti sono il soggetto delle mie opere, queste linee inesistenti eppure percepite, scaturite dall’incontro fra due alterità, che possano mettere in moto lo sguardo innescandone la più bella avventura: quella di un paziente scrutare, tutto teso all’attimo imprevedibile e al luogo paradossale in cui le superfici pittoriche trovano la propria sintesi e profondità, schiudendo così un senso di infinito. È questa imprevedibilità che diviene metodo, strada per la creazione dell’immagine pittorica: un lenzuolo steso a terra, adagiato su dei cartoni, piegato in due parti e dipinto in una sola di esse con smalti e bitume nella speranza che il tempo di asciugatura permetta l’emergere di macchie e segni eventuali che pongano lo sguardo in rapporto con gli orizzonti segnalati dalle piegature del lenzuolo. Sempre alla ricerca di quelle zone pittoriche in cui la linea smette di essere un confine che divide e si trasforma in un fragile limite, in luogo di scambio fra alterità, fra segni e campi pittorici, fra un sopra e un sotto, fra un chiaro e uno scuro, fra una terra e un cielo, stranieri l’uno all’altro, che mendicano la propria unità.